Nessun è immune al pericolo, i profughi palestinesi in Libano ora ne affrontano uno invisibile: il Coronavirus

Il mercato all’aperto di Sabra Street a Beirut è perennemente caotico, anche in periodi di distanziamento sociale.
Fonte English version

Di Nabih Bulos – 14 Maggio 2020

BEIRUT – Passeggiando lungo Sabra Street è come tornare al periodo precedente il virus e la quarantena. Il mercato all’aperto che si estende su una lunghezza di 800 metri è un miscuglio di mercanti urlanti, vecchie automobili, scooter che sfrecciano intorno ai pedoni e buche aperte. La strada finisce nel vicino campo profughi palestinese di Shatila, dove ristoranti, scarichi sui marciapiedi, barbieri, garage sono tutti aperti, persino affollati, in ciò che in questi giorni sembra una manifestazione quasi oscena della vicinanza sociale.

Ma è meno una questione di indifferenza per il coronavirus che di disperazione, ha detto Ali Fayyadh, capo della sicurezza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), una delle tante fazioni che amministrano Shatila.

“Siamo già immuni ai virus. Grazie a Dio abbiamo fognature e rifiuti dappertutto”, ha detto, gesticolando mentre saltava su una pozzanghera. “Anche se ci lanciassero addosso un’arma biochimica, non ci farebbe nulla”.

Vicino a lui c’era Omar, una guardia, che si stava sistemando la cinghia del Kalashnikov sopra i pantaloncini e il marsupio. Dice; “si, probabilmente il coronavirus è arrivato al campo, ha visto la situazione e se ne è andato”.

Quasi tre mesi dopo che il Libano ha registrato il suo primo caso, il governo è stato elogiato per aver contenuto il numero di infetti; Il suo bilancio ammonta ora a 886 casi e 26 decessi in un paese di 6,8 milioni di abitanti. Ma mentre la necessità di riaprire si bilancia con i timori di una seconda ondata di infezioni, le comunità di rifugiati come Shatila – sovraffollate, poco servite e spesso ignorate dallo stato – sono emerse come l’anello debole, dicono funzionari, fornitori di servizi sanitari e gruppi di aiuto.

“La paura è quello che ci aspetta, perché se, Dio non voglia, l’epidemia si diffonde nei campi, avremo un grosso problema”, ha riferito Hasan Mneimneh, ex ministro del governo e capo del comitato di dialogo libanese-palestinese, in un’intervista telefonica.

Il Libano, una piccola nazione mediterranea che ha subito una guerra civile tra il 1975 e il 1990, ha circa 1,5 milioni di profughi palestinesi e siriani, rendendolo il paese con il maggior numero di rifugiati pro capite al mondo.

Nel mondo, più di 70 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case a causa di vari conflitti; si stima che 10 milioni siano bloccati in campi e altri insediamenti in cui l’assistenza sanitaria è scarsa e sono presenti le condizioni per la diffusione di malattie come COVID-19. I gruppi di difesa temono l’insorgenza di una crisi coronavirus non rilevata.

Sabra Street conduce a Shatila, un campo per rifugiati palestinesi che si è trasformato in una baraccopoli (Nabih Bulos / Los Angeles Times)

Una delle comunità più numerose in Libano è nel campo di Shatila, aperto nel 1949, un anno dopo la creazione di Israele, e il vicino quartiere di Sabra, stipati in circa 400 metri quadrati divisi da una strada principale a sud di Beirut.

Non è la prima volta che gli abitanti del campo affrontano un pericolo. Durante la guerra civile del Libano, nel 1982, Sabra e Shatila furono il teatro di un orribile strage commessa dalle milizie cristiane falangiste appoggiate da Israele, che massacrarono centinaia, forse migliaia di palestinesi, uomini, donne, giovani e persino bambini, in un bagno di sangue noto per la sua barbarie in un conflitto che non dimenticheranno.

Settembre 1982-2018. Sabra e Chatila, il dovere di non dimenticare

Nonostante la violenza, qui ci sono ancora palestinesi. Ma la zona è diventata anche la patria di altri rifugiati, politici ed economici: Siriani, marocchini, yemeniti, srilankesi, bengalesi, egiziani, persino libanesi indigenti, che vi si sono stabiliti negli ultimi anni in abitazioni fatiscenti e anguste, portando la popolazione a più di 30.000 persone, dicono gli amministratori del campo e i funzionari governativi.

Nell’epidemia COVID-19, Sabra e Shatila affrontano una minaccia diversa dalla guerra, ma l’agente patogeno potrebbe rivelarsi terribilmente distruttivo.

Il mese scorso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA) e associazioni di assistenza medica hanno segnalato un’infezione nel campo di Jalil nella valle della Bekaa  in Libano. Non sono emersi altri casi confermati tra le centinaia di comunità di rifugiati, tra cui Sabra e Shatila.

Le fazioni palestinesi, in coordinamento con le forze di sicurezza libanesi, impongono un blocco al campo di Wavel (noto anche come campo di Jalil) per i rifugiati palestinesi nella valle orientale della Bekaa in Libano. (AFP)

Ma i test sono minimi o inesistenti. Il governo libanese ha condotto oltre 56.000 test a livello nazionale, ad un ritmo di circa 1.000 al giorno, ma solo 400 tra i rifugiati palestinesi, 16 dei quali in Shatila, secondo i dati dell’UNRWA. Anche se il test e il trattamento per COVID-19 approvati dal Ministero della Salute Pubblica  sono gratuiti per gli abitanti , il governo lascia all’UNRWA e all’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, l’onere di coprire le spese sanitarie e fornire  prodotti per l’igiene e dispositivi di protezione ai rifugiati palestinesi e siriani .

I campi potrebbero essere terreno fertile per il contagio. Famiglie di 10 persone alloggiano in monolocali. La mancanza di servizi igienici è evidente ovunque; spazzatura e sporcizia ricoprono quasi ogni superficie. I cavi elettrici penzolano vicino ai tubi dell’acqua posati sopra vicoli pieni di fanghi (morti per folgorazione sono avvenute in passato).

“Ogni giorno, per un certo periodo, abbiamo fatto sterilizzazioni”. ha detto Kathem Hassan,  rappresentante dell’OLP a Shatila. Finite le taniche di disinfettante, i lavoratori hanno usato acqua con un po’ di cloro, ha riferito.

“E inutile in ogni caso. Ciò che si sta disinfettando verrebbe inanzitutto considerato, secondo le linee guida di sanità, come un mucchio di rifiuti”, ha detto.

Le pessime condizioni qui e in altri insediamenti di rifugiati in tutto il Libano precedono l’epidemia di coronavirus, risultato di una persistente politica del governo libanese di trattare i campi come temporanei e scoraggiare i rifugiati dal rimanere. Anche i palestinesi, e in misura minore i siriani, devono affrontare restrizioni nell’accesso ai servizi sanitari, ai programmi di assistenza sociale e al lavoro.

Allo stesso tempo, i comuni di tutto il paese hanno imposto ai rifugiati misure più severe di quelle poste ai libanesi, inclusi coprifuoco più lunghi e blocchi senza eccezioni. I principali politici libanesi hanno chiesto che i campi siano completamente isolati.

COVID-19 è solo la più recente di una serie di calamità che stanno devastando il Libano. Una carenza nazionale di dollari da settembre ha fatto svalutato la moneta libanese a meno di un terzo del suo valore precedente provocando proteste antigovernative che hanno portato più di un milione di persone a manifestare. Migliaia di imprese sono state chiuse. Quest’anno quasi la metà della popolazione è destinata a scendere al di sotto della soglia di povertà, anche senza il dilagare della pandemia, ha dichiarato la Banca mondiale.

“Di giorno in giorno, le persone in Libano hanno paura di andare al supermercato a causa dell’aumento dei prezzi. E l’impatto sui rifugiati è triplicato, quadruplicato”, ha detto Huda Samra, consulente alle pubbliche relazioni dell’UNRWA, in un’intervista telefonica.

Le associazioni umanitarie si sono mobilitate per contenere i danni, ma l’assistenza è stata perseguitata da carenze.

L’UNRWA ha lottato per mantenere i finanziamenti da quando l’amministrazione Trump ha ritirato il supporto nel 2018. Ha lanciato diverse campagne di finanziamento per fornire assistenza in contanti, un pagamento una tantum di 90 dollari (82€) alle famiglie, ma non ha ricevuto sufficenti donazioni, ha dichiarato Samra.

“Abbiamo raggiunto un punto in cui non potevamo più aspettare. Le cose stavano raggiungendo un livello di disastro umanitario, quindi abbiamo dovuto prelevare fondi interni per erogare aiuti di emergenza”, ha affermato. Infine, invece di 90 dollari, l’agenzia ha dato alle famiglie 100.000 sterline libanesi, meno di 25 dollari (23€).

“Le persone non hanno idea di come saranno in grado di provvedere alle loro famiglie. A marzo, abbiamo chiesto ai rifugiati siriani quali fossero le loro priorità principali, e il 32% ci ha detto che avevano un bisogno critico di cibo”, ha detto al telefono Matias Meier, direttore nazionale dell’International Rescue Committee. L’indicatore ha raggiunto il 92% questa settimana.

È facile scorgere la disperazione nel mercato all’aperto di Sabra, dove i commercianti maneggiano le loro merci indipendentemente dai rischi di trasmissione del coronavirus.

“Attività commerciale? Non è nemmeno un quarto di quella che facciamo normalmente”, ha detto Mohammad Deerawi, un macellaio i cui prezzi per la carne erano più che raddoppiati da settembre. “Quando vengono, i clienti ne acquistano una libbra (450 grammi). Prima, ne avrebbero acquistate almeno tre”.

In un negozio di alimentari, pochi clienti si avvicinano a Ibrahim Mohammad, un esile commesso di 18 anni, per informarsi sul prezzo di un articolo, solo per andarsene con disinvoltura quando ricevono la risposta.

“Non c’è niente che io possa fare. Non ha più senso lavorare”, dice. “Ogni volta che vendo qualcosa, il suo prezzo finisce per aumentare e diventa una danno per me”.

Lì vicino c’era uno studio fotografico appartenente ad Ahmad Qassem, un rifugiato palestinese che ha vissuto per decenni con sua moglie e cinque figli in un appartamento vicino a Shatila. I suoi due figli, ha detto, hanno dovuto smettere di lavorare come fattorini e penare per trovare un altro lavoro. Il suo denaro è bloccato nelle banche libanesi che da settembre hanno limitato i prelievi.

Lo studio rendeva più di 50 dollari al giorno. “Questo è un grande negozio. Dall’inizio della pandemia fino ad ora, a malapena guadagno più di un dollaro al giorno”, dice.

“Non è mai andata così male qui. Non sappiamo cosa fare”.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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