Gaza: “Pacificazione” in cambio della sicurezza sanitaria

Nel contesto di una pandemia mondiale che per il momento ha risparmiato il sovraffollato territorio di Gaza, i negoziati tra Hamas e Israele, con l’attiva partecipazione dell’Egitto, sono volti a trovare un accordo di pacificazione, che implica una pausa negli attacchi missilistici in cambio di assistenza medica a Gaza. Questo accordo, se vedrà la luce, potrebbe contribuire a isolare ancora di più l’Autorità Palestinese.

Fonte: English Version

Sara Daoud  – 27 Agosto 2020

Immagine di copertina: Gaza City, 1 luglio 2020. – Yahya Sinwar (al centro) partecipa a una manifestazione nel “Giorno della rabbia” contro il piano israeliano di annettere parti della Cisgiordania occupata (Mahmud Hams / AFP)

“L’occupazione […], il  corona […] stanno uccidendo i nostri prigionieri”. Di fronte alla sede della Croce Rossa Internazionale a Gaza, diversi manifestanti, riuniti su iniziativa del “Ministero dei prigionieri”, organismo amministrato da Hamas, chiedono la liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti in Israele, considerato l’alto rischio di contagio presente nelle carceri.

In effetti, nel contesto di questa crisi sanitaria mondiale, i negoziati sulla questione dei prigionieri non sono mai stati sospesi. Al contrario, sembrerebbe addirittura che la pandemia abbia avuto un effetto catalizzatore su queste richieste, che se  venissero accolte aprirebbero la strada a un accordo di “pacificazione” (tahdi’a) tra il movimento islamista e Israele. E per una buona ragione, dal momento che la posta in gioco è scambiare un periodo di calma, vitale per un governo israeliano destabilizzato dalle ultime elezioni e impegnato a frenare la crisi del Covid-19,  con l’assistenza medica nella Striscia di Gaza. Con la scoperta di quattro casi di Covid il 24 agosto, mentre Israele compie una serie di offensive da più di una settimana e impedisce l’ingresso di carburante che porta a una massiccia carenza di elettricità, le autorità di Gaza lanciano l’allarme.

La minaccia di una crisi sanitaria a Gaza

Una propagazione del virus nell’enclave palestinese, fino ad ora relativamente risparmiata, è molto temuta a causa della densità della sua popolazione, una delle più alte al mondo, e delle condizioni umanitarie, che continuano a deteriorarsi a causa del blocco israeliano. In diverse occasioni, Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh, due leader di Hamas, hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche sulla gestione della crisi. Haniyeh, capo dell’ufficio politico del partito, che da gennaio è in tournée internazionale, ha dichiarato a metà aprile in un’intervista a Doha che nella Striscia di Gaza era stato emanato un certo numero di misure.

Al checkpoint di Rafah è stato allestito un centro di quarantena per i palestinesi di ritorno dall’Egitto. Da metà marzo, il posto di frontiera è stato aperto solo tre volte per consentire ai palestinesi bloccati in Egitto di tornare a casa. E la maggior parte dei casi registrati nella Striscia di Gaza riguarda viaggiatori provenienti dall’Egitto, tutti individuati all’interno del centro di quarantena. All’inizio di aprile c’erano una dozzina di persone  positive e all’inizio di agosto il loro numero era salito a 80.

Haniyeh ha anche specificato che per far fronte alla crisi le autorità di Gaza stanno collaborando con il Ministero della Salute di Ramallah. Tuttavia, con il loro sistema sanitario carente, conseguenza dell’occupazione israeliana e della sospensione dell’assistenza finanziaria statunitense, per far fronte alla pandemia i palestinesi si trovano ora totalmente dipendenti dagli aiuti esterni.

Il Cairo è preoccupato per la crisi sanitaria nella vicina enclave e alla fine di marzo aveva  inviato un convoglio con cibo e medicinali, in coordinamento con le autorità israeliane. Questo evento era avvenuto in un contesto di tensione e subito dopo dalla Striscia di Gaza erano stati lanciati dei razzi. L’intenzione di Hamas era di fare pressione su Israele in modo che inviasse kit medici nella Striscia.

Oltre al suo sostegno umanitario, l’Egitto, e in particolare i suoi servizi di intelligence, partecipa attivamente ai negoziati per il mantenimento della pace, compiendo notevoli sforzi diplomatici per mantenere la calma tra i due avversari. Questa attività ha assunto un significato particolare in seguito alla dichiarazione di Sinwar del 2 aprile. In risposta alle domande dei giornalisti, ha minacciato Israele di rappresaglie se la situazione nella Striscia di Gaza  fosse peggiorata a causa della mancata assistenza israeliana. E su questo punto la posizione di Israele è perfettamente chiara: non ci può essere assistenza senza qualcosa in cambio.

Negoziati: “Affari come di conseguenza”

Sebbene gli attuali colloqui di pace includano un aspetto sanitario, questo rimane, ovviamente, un accordo  a breve termine. In effetti, questi colloqui hanno riguardato per oltre un decennio la revoca del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza in cambio di una “tregua” di almeno cinque anni. I termini di questo accordo, negoziato indirettamente con l’Egitto nel ruolo di principale intermediario, sono ancora relativamente imprecisi. Ma deve essere implementato in più fasi. Implica la costruzione di infrastrutture a Gaza, linee elettriche e aree industriali nei punti di confine con Israele e l’estensione della zona di pesca palestinese.

Ultimamente le trattative si sono concentrate sulla questione degli scambi di prigionieri, un processo che sembra andare più veloce a causa dell’emergenza Covid-19. Infatti, a causa della situazione sanitaria, Hamas ha chiesto il rilascio degli anziani, delle donne e dei bambini ancora detenuti nelle carceri israeliane, così come quello dei prigionieri liberati secondo i termini dell’accordo Ghiad Shalit del 2011 e nuovamente incarcerati durante l’operazione Margine Protettivo  nel 2014. In cambio, il governo israeliano chiede la restituzione dei corpi di due soldati morti e il rilascio di due suoi cittadini che si erano infiltrati nella Striscia di Gaza.

I leader di Hamas stanno cercando di assumere una posizione inflessibile su questo argomento, come testimonia il duro discorso di Sinwar all’inizio di aprile. Tuttavia, la caratteristica asimmetria dei rapporti tra Israele e il Partito islamista obbliga quest’ultimo a limitare i suoi impulsi bellicosi alla sua retorica e ad esercitare ancora una volta il pragmatismo. Pertanto, ci sono scambi costanti tra Hamas e Israele tramite i rispettivi servizi di intelligence. Tuttavia, mentre negli ultimi mesi questi negoziati sembrano aver preso una svolta tangibile, si deve riconoscere che la situazione generale rimane terribilmente instabile.

In effetti, il ritmo lento del processo appare in netto contrasto con l’urgenza umanitaria e la difficile situazione dei Gazawi, espresse in frequenti manifestazioni di piazza come la “Grande marcia del ritorno”, lanciata nel marzo 2018, movimenti che non sono interamente controllati da Hamas e che incontrano la repressione militare da parte di Israele. Recentemente, la ripresa dell’invio di palloncini incendiari verso il confine israeliano ha spinto Israele a bloccare il pagamento del contributo del Qatar all’enclave palestinese, oltre a un’ennesima escalation di tensioni. Una delegazione di specialisti della sicurezza egiziani si è recata a Gaza e ha proposto, come sempre in extremis, un compromesso a breve termine tra le due parti e ha tentato di accelerare una rapida conclusione dei negoziati in corso.

La sicurezza e le risorse politiche

Questi colloqui offrono un certo grado di continuità, sia per quanto riguarda il processo stesso che per gli individui coinvolti. Ad esempio, vi  hanno sempre partecipato mediatori  egiziani, oltre a tedeschi e svizzeri. Tuttavia, i servizi segreti egiziani si differenziano dagli altri mediatori per  la loro costante partecipazione ma anche e soprattutto per la loro motivazione. Considerando la contiguità territoriale tra Egitto, Striscia di Gaza e Israele, mantenere la calma tra le due ultime entità, almeno momentaneamente, è una questione di sicurezza nazionale per il Cairo, il cui ruolo è piuttosto quello di un “partner mediatore”.

Il caso del Sinai è emblematico di questa mutua dipendenza tra i diversi attori. Dall’inizio del suo mandato nel 2013, il maresciallo Abdel Fattah Al-Sissi ha lavorato per la riconquista della penisola egiziana. Sta conducendo una “guerra al terrorismo” con la collaborazione di Hamas. Dopo un periodo di intensa repressione del Partito islamista da parte del regime militare egiziano, soprattutto attraverso la chiusura quasi sistematica del valico di Rafah tra il 2013 e il 2017, tra le due parti è stato finalmente raggiunto un modus vivendi. Hamas ha mostrato la sua disponibilità a collaborare con le autorità egiziane attraverso uno scrupoloso monitoraggio degli ingressi e delle uscite da e per la Striscia di Gaza in cambio di una liberalizzazione delle esigenze di mobilità per i palestinesi.

Tuttavia, dal punto di vista egiziano, questa stretta collaborazione non è destinata a durare. Il Cairo lo vede come un partenariato temporaneo, perché spera di vedere il ritorno dell’Autorità Palestinese a Gaza. A lungo termine, non tollererà il dominio di un territorio vicino da parte di un partito che è sistematicamente associato ai Fratelli Musulmani. Tuttavia, Hamas ha un vantaggio sul presidente Mahmoud Abbas, che è stato messo da parte durante questi negoziati e che condivide il punto di vista della sua controparte egiziana. Ad esempio, il coinvolgimento del suo avversario politico, Mohamed Dahlan, come intermediario nel riavvicinamento tra Il Cairo e Hamas, ha causato notevole fastidio a Ramallah.

Così, i colloqui di pacificazione sembrano aver ulteriormente screditato l’Autorità Palestinese. In effetti, sebbene queste discussioni relativamente informali non implichino il riconoscimento reciproco tra Israele e Hamas, hanno consentito a quest’ultimo di rafforzare il suo status politico e internazionale e hanno ulteriormente approfondito il divario tra le fazioni palestinesi. Inoltre, i negoziatori egiziani, che sono anche responsabili del dossier sulla riconciliazione interpalestinese, hanno in una certa misura abbandonato quest’ultimo a causa della mancata applicazione del più recente accordo tra Hamas e Fatah, firmato al Cairo nell’ottobre 2017. Questi ultimi hanno comunque cercato di presentare un fronte unito, sin dalla divulgazione, lo scorso gennaio, dell'”accordo del secolo” dell’amministrazione statunitense, e più recentemente, in reazione al piano del governo Netanyahu di annettere i territori palestinesi.

A seguito della conferenza stampa congiunta tenuta all’inizio di luglio da Jibril Al-Rajoub e Sale Al-Arouri, rispettivamente alti funzionari di El Fatah e Hamas, l’idea è stata quella di organizzare nel prossimo futuro un incontro pubblico a Gaza, soprannominato ” festival ”, coinvolgendo tutti i vari partiti politici. Questa iniziativa è stata riscritta nel calendario palestinese dopo la normalizzazione delle relazioni tra gli Emirati Arabi e Israele. La delegazione della Sicurezza Egiziana, durante la sua ultima visita a Ramallah e poi a Gaza, il 16 e 17 agosto, ha informato i palestinesi delle posizioni degli Emirati e di Israele e ha esortato le diverse fazioni a riunirsi.

Tuttavia, è improbabile un esito positivo di questi rinnovati sforzi per l’unità nazionale. In effetti, il dialogo relativamente fruttuoso di Hamas sullo scambio di prigionieri, inteso come un primo passo verso la “pacificazione”, ratifica una logica di negoziati con Israele parallela e in concorrenza con il laborioso processo di pace guidato dall’Autorità palestinese.

 

Sarah Daoud è PhD student presso il Centre de recherches internationales (CERI-Sciences-Po) e affiliata al Centre d’études et de documentation juridiques, économiques et sociales (Cedej) del Cairo.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” -Invictapalestina.org

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