Come l’uccisione di un giovane palestinese è diventata un’opera teatrale recitata dagli afroamericani

Un nuovo documentario si concentra sulla storia di Asel Asleh, un’adolescente ucciso dalle forze israeliane durante la Seconda Intifada

Fonte:English Version

Nada Elia – 12 novembre 2020

Immagine di copertina: Il ritratto di Asel Asleh viene issato durante una manifestazione nel nord di Israele nel 2007 (AFP)

Il mese scorso ha segnato il ventesimo anniversario dell’uccisione da parte di Israele del diciassettenne Asel Asleh, un cittadino palestinese di Israele il cui idealismo giovanile lo aveva spinto a  frequentare il campo organizzato   da  “Seeds of Peace”  con altri palestinesi, israeliani e americani.

Asleh era uno dei 13 palestinesi disarmati uccisi in Israele dalle forze di sicurezza israeliane  durante  quel mese, insieme a dozzine di altri palestinesi nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e a Gaza, mentre le proteste scoppiavano nella storica Palestina in quella che divenne poi nota come la Seconda Intifada. È morto  indossando ancora la sua maglietta verde dei “Semi di Pace”.

 Marlowe  utilizza  la storia del suo amico per lanciare un dibattito  internazionale tra tutte le famiglie, dalla Palestina agli Stati Uniti, che hanno perso i propri cari a causa della violenza di Stato

Nel 2016, dopo anni di interviste con la sorella di Asleh, Nardeen, e con altri, la drammaturga e attivista americana Jen Marlowe, che era una consulente del campo “Seeds of Peace”, ha prodotto un’opera teatrale intitolata “There is a Field” sull’omicidio del suo amico e sui tentativi falliti della famiglia Asleh per ottenere giustizia.

Quest’anno, Marlowe ha completato un documentario basato su quella commedia. È stato presentato per la prima volta in Palestina il 2 ottobre,  l’anniversario dell’uccisione di Asleh, e negli Stati Uniti il ​​18 ottobre, con ulteriori proiezioni virtuali durante tutto il mese e dibattiti con attivisti, organizzatori e membri della famiglia Asleh. La premiere statunitense è stata  caratterizzata da interventi  potenti e stimolanti tenuti, tra gli altri, dal fratello della vittima, Baraa Asleh, e da Gwen Carr, la madre di Eric Garner, le cui ultime parole, “Non riesco a respirare”, sono diventate un grido di battaglia contro la brutalità della polizia.

Il documentario  riprende una lettura dell’opera teatrale, eseguita in New Mexico da organizzatori e attivisti di Black Lives Matter, e intervallata da filmati d’archivio di quel fatidico giorno dell’ottobre 2000 e delle sue conseguenze. Include commenti sulle molte somiglianze tra la situazione  dei cittadini palestinesi di Israele e i neri americani, poiché entrambe le comunità affrontano il razzismo sistemico e un apparato statale che li considera indesiderabili e “usa e getta”.

Questo non significa che il film, o i dibattiti sulle forze dell’ordine, sulla violenza e sul razzismo sistemico, siano astrazioni intellettuali. Marlowe eccelle nel dettagliare il personale, l’intimo, l’umano. Il suo lavoro, in questo film e altrove, è una sottile critica al fatto che i movimenti politici possono oscurare la tragedia personale ai fini di una mobilitazione su larga scala: figli, fratelli e amici intimi assassinati diventano spesso martiri simbolici appartenenti alla comunità, con poche opportunità, per i loro parenti più stretti, di piangerli.

In una scena straziante, mentre la processione per il funerale di Asleh attraversa il loro villaggio, la folla blocca la vista del suo amato fratello a Nardeen, mentre Baraa non può nemmeno intravedere la bara e deve invece guardare la processione in televisione.

Sistemi suprematisti

Marlowe usa questi dettagli privati ​​per avviare  un dibattito tra gli attori-attivisti e il pubblico, in grado di riconoscere, nella difficile situazione della famiglia Asleh, aspetti del proprio dolore e della propria perdita, poiché anche loro devono confrontarsi con un sistema suprematista deciso a eliminarli.

L’autrice utilizza  la storia del suo amico per lanciare un dibattito internazionale tra tutte le famiglie, dalla Palestina agli Stati Uniti, che hanno perso i propri cari a causa della violenza di stato e su tutte le persone le cui vite sono state sconvolte dal razzismo insensibile e omicida e dall’indifferenza del sistema giudiziario rispetto alla loro situazione.

Il film ci offre uno sguardo intimo su una famiglia in lutto, umanizzando individui il cui dolore è regolarmente mascherato dai media occidentali. Ma “There is a Field” è molto più di un documentario, più della storia di un martire e della sua famiglia. È un ottimo esempio di “artivismo” – arte per la giustizia sociale e per costruire la solidarietà attraverso la narrazione.

Il commento degli attivisti Black Lives Matter è toccante, poiché articolano le ragioni fondamentali della solidarietà transnazionale e della lotta congiunta. Un attore lo ha espresso al meglio quando ha spiegato che, da adolescente nera negli Stati Uniti, ha sempre sentito di avere un bersaglio sulla schiena – e si è resa conto, attraverso la storia di Asleh, che i palestinesi si sentono allo stesso modo.

“There is a Field” è stato prodotto da Donkeysaddle Projects, che Marlowe ha fondato, e che – fino alla pandemia Covid-19 e al conseguente blocco – aveva  supportato una serie di rappresentazioni  e spettacoli comunitari intensivi basati sul teatro, utilizzando lo spettacolo come cornice per un’educazione politica e per la costruzione del movimento. Il sito web del progetto  spiega che esso mira a “costruire la solidarietà nero-palestinese e rafforzare l’organizzazione locale  in Palestina e la costruzione trasversale del movimento”.

Battaglie interconnesse

La storia di Asleh, raccontata da Marlowe, è subito collegata alla lotta per la liberazione palestinese, alla sovranità indigena su Turtle Island e al movimento Black Lives Matter. È una forte denuncia di quel modello di giovani disarmati – neri, mulatti e arabi – uccisi impunemente da una forza di polizia iper-militarizzata che li vede come minacce o criminali, non come giovani idealisti o adolescenti che stanno semplicemente tornando a casa.

Lo spettacolo critica anche Seeds of Peace e simili programmi di incontro tra giovani palestinesi e israeliani. Il commento frustrato di Nardeen al suo collega israeliano “non mi sono trasferita in Israele, Israele si è trasferita da me” ricorda il colonialismo  verso gli indigeni del Nord America, così come  l’affermazione di Malcolm X che “non siamo atterrati su Plymouth Rock, Plymouth Rock è atterrato su di noi ”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica palestinese della diaspora. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro, “Who You Callin ‘”Demographic Threat?” Notes from the Global Intifada” . Professoressa di Gender and Global Studies (in pensione)  è membro dello Steering Collective della US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (USACBI)

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.corg

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