In Palestina, stare dalla parte della verità trasforma in bersagli

L’ostilità israeliana verso i giornalisti ha senso una volta che si comprende la natura di questo Stato coloniale. La continuazione dell’Apartheid israeliano è possibile solo combattendo coloro che rivelano la verità.

Fonte: english version
Di Ahmed Abu Artema – 12 maggio 2022

Immagine di copertina: Artisti palestinesi dipingono un murale in onore della giornalista Shireen Abu Akleh, veterana di Al-Jazeera, uccisa a Gaza il 12 maggio 2022. (Foto: Ashraf Amra/APA Images)

Mercoledì 11 maggio 2022, le forze di occupazione israeliane hanno ucciso la giornalista palestinese Shireen Abu Akleh nel campo profughi di Jenin mentre stava documentando sul posto un’aggressione israeliana . La giornalista Shatha Hanaysha, che era con Abu Akleh quando le hanno sparato, ha condiviso ciò che ha visto:

“Eravamo un gruppo di giornalisti e indossavamo tutti i giubbotti con l’insegna della stampa. Shireen indossava un giubbotto antiproiettile e un elmetto. Il cecchino  che le ha sparato l’ha colpita in una zona della testa non coperta. Eravamo di fronte a un edificio dove erano appostati i cecchini israeliani. I soldati erano di fronte a noi. Potevano vederci mentre stavamo davanti a loro. Ci trovavamo appositamente in un’area dove i soldati potevano vedere chiaramente le insegne sui nostri giubbotti. Le riprese sono iniziate dopo che siamo arrivati ​​in quel luogo, quindi è stato impossibile per noi andarcene. Se non avessero voluto uccidere, avrebbero sparato prima che arrivassimo in un luogo da cui era difficile ritirarsi. Quello che è successo è stata la deliberata uccisione di una giornalista”.

Nella stessa sparatoria è rimasto ferito anche un produttore di Al Jazeera, Ali Al Samoodi che ha reso la sua testimonianza dell’attacco:

“Durante i servizi ci assicuriamo che le forze di occupazione israeliane possano vederci chiaramente, perché non possiamo lavorare se non ci vedono. Metteremmo in pericolo le nostre vite. Abbiamo raggiunto la zona e abbiamo aspettato fino all’arrivo di Shireen, poi abbiamo indossato i giubbotti antiproiettile e abbiamo proceduto insieme. Stavamo di fronte ai soldati nell’area aperta in modo che i soldati potessero vederci da ogni angolazione. Ci vedevano chiaramente e ci potevano identificare come giornalisti, non come combattenti della resistenza”.

La testimonianza di Al Samoodi ha invalidato la propaganda israeliana sull’omicidio, che incolpava i combattenti palestinesi. Ha aggiunto:

“Non possiamo entrare in nessuna zona oggetto di scontri armati. Quando siamo arrivati ​​nell’area, abbiamo guardato e ci siamo assicurati che non ci fossero combattenti della resistenza o scontri. La zona è molto pericolosa e nessun combattente della resistenza o civile può entrarvi, perché verrebbero uccisi. Siamo rimasti di fronte ai soldati per cinque minuti, poi abbiamo proceduto lentamente, ma hanno sparato.  Sono risuonati  tre colpi. Il secondo proiettile mi ha colpito direttamente e il terzo proiettile ha colpito Shireen”.

Shireen Abu Akleh è un nome familiare, conosciuto da milioni di arabi negli ultimi 25 anni grazie al suo lavoro come giornalista per Al Jazeera. Il suo nome, la sua voce e la sua presenza sono stati legati alla sofferenza del popolo palestinese e ai continui crimini dell’occupazione israeliana.

Sulla sua pagina Facebook, e solo tre giorni prima di essere uccisa, Shireen aveva  pubblicato questo:

In questo post ha condiviso la morte di Um Kareem Younis, una madre palestinese che aveva aspettato per 40 anni che suo figlio Kareem, imprigionato nelle carceri dell’occupazione israeliana venisse liberato. Solo otto mesi prima del suo imminente rilascio, Um Kareem è morta. È morta senza realizzare il sogno di vedere suo figlio finalmente libero.

È così che si intrecciano le storie della sofferenza palestinese. Questo è ciò che significa essere una giornalista palestinese: essere il portavoce del dolore, delle agonie e l’oppressione derivanti dal vivere sotto occupazione per decenni. Quasi ogni casa palestinese ha una storia triste, che si tratti di un omicidio, una disgrazia, una prigionia, una demolizione o di una deportazione.

Dopo 25 anni di giornalismo, gli estimatori di Shireen sono rimasti scioccati ieri dal fatto che lei stessa fosse diventata la notizia. Shireen non è la prima vittima dell’occupazione israeliana, ma è la più recente di una lunga lista di migliaia di vittime palestinesi dall’inizio dell’attacco coloniale razzista sionista alla Palestina.

Shireen, inoltre, non è il primo giornalista palestinese ad essere ucciso in servizio. L’occupazione israeliana ha ucciso almeno 46 giornalisti dall’anno 2000 e il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi afferma che 86 giornalisti palestinesi sono stati uccisi dall’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza dal 1967.

E nel maggio 2021, Israele fece notizia quando i suoi aerei da guerra  bombardarono l’edificio Al-Jalaa che ospitava decine di uffici di agenzie di stampa internazionali, e questo  pur conoscendo da sempre la natura degli uffici presenti.

L’ostilità israeliana verso i giornalisti ha senso quando si comprende la natura di questo Stato coloniale. Come può uno Stato fondato e promosso sulla falsa premessa che non esiste un popolo palestinese , riconciliarsi con un popolo la cui missione è quella di rivelare la verità! La continuazione delle politiche coloniali dello Stato di occupazione israeliano è possibile solo combattendo coloro che rivelano la verità.

Dal momento in cui è avvenuto questo brutale crimine contro Abu Akleh, è ​​diventato un’immediata fonte di preoccupazione per Israele perché contraddice gli enormi sforzi e le risorse che impiega per umanizzare il suo esercito e mascherare lo Stato di Apartheid per dipingerlo come un normale Paese democratico che promuove i diritti umani.

Dopo l’uccisione, i portavoce dello Stato israeliano hanno aderito alla politica di: “Menti, poi menti e menti ancora finché la gente non ti crede”. Il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha affermato che i risultati dell’indagine preliminare mostrano che l’esercito israeliano non ha sparato alla giornalista Shireen Abu Akleh. Il portavoce dell’esercito israeliano ha denunciato la presenza di militanti palestinesi incolpandoli dell’uccisione della giornalista.

Le bugie che seguono ogni crimine che fa notizia a livello internazionale sono diventate un comportamento abituale di Israele. I palestinesi sentirono queste bugie dopo il crimine dell’uccisione del bambino palestinese Mohammed Al-Durra nel 2000 mentre si teneva stretto a suo padre, e dopo l’uccisione della paramedico Razan Al-Najjar nella Grande Marcia del Ritorno nel 2018, e dopo il bombardamento dell’Edificio Al-Jalaa nel 2021 a Gaza. Dopo aver commesso questi crimini Israele cerca di offuscare i fatti, minimizzare le proprie responsabilità e affermare che i palestinesi si uccidono a vicenda.

Oltre alla testimonianza di Al Samoodi, il Centro d’Informazione Israeliano per i Diritti Umani B’Tselem ha indagato sull’uccisione confutando la versione degli eventi data dall’esercito israeliano.

E anche se alcuni rappresentanti israeliani stavano cercando di assolversi dal crimine, altre dichiarazioni di funzionari israeliani costituivano un’implicita ammissione di colpa.

Avi Benyahu, un ex portavoce dell’esercito israeliano, ha dichiarato: “Supponiamo che Shireen Abu Akleh sia stata uccisa dal fuoco dell’esercito israeliano. Non c’è bisogno di scusarsi per questo”.

Il membro della Knesset Itamar Ben Gvir ha dichiarato: “Quando i ‘terroristi’ sparano ai nostri soldati a Jenin, i soldati devono reagire con tutta la forza, anche in presenza di giornalisti di Aljazeera nella zona, che di solito ostacolano l’esercito e impediscono il loro lavoro”.

I portavoce dell’occupazione israeliana stanno cercando di sviarci, ma le bugie di Gvir devono essere riconosciute perché sono pericolose e, in definitiva, giustificano il prendere di mira e l’uccisione di giornalisti anche quando vengono identificati.

Pertanto, dobbiamo sempre ricordare il quadro più ampio di ciò che sta accadendo in Palestina. Cioè, che c’è un potere razzista e coloniale incarnato nello Stato di Israele che ha commesso crimini sistematici per sette decenni contro la popolazione nativa che ha vissuto qui per migliaia di anni. Il suo obiettivo è spodestare il nostro popolo e uccidere la sua volontà di resistere.

Giornalisti come Shireen Abu Akleh e Yasser Murtaja; la paramedica Razan Al-Najjar, e l’attivista americana Rachel Corrie e migliaia di altri sono stati al fianco delle persone i cui diritti sono stati violati. Gli unici che si sono sentiti feriti dal loro lavoro umanitario e professionale è Israele.

Ahmed Abu Artema è un rifugiato palestinese nato a Rafah, nella Striscia di Gaza, nel 1984. Scrittore e attivista politico indipendente con sede a Gaza, è autore del libro “Organized Chaos” (Caos Organizzato) e numerosi articoli. È uno dei fondatori e organizzatori originali della Grande Marcia del Ritorno. Attualmente è membro del gruppo Palestine Without Borders

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invivtapalestina.org