Riflessioni sull’intervista ad Anna Foa su La Stampa: l’esempio della “retorica equidistante” per non criticare il genocidio contro i palestinesi

Il 27 marzo il quotidiano La Stampa ha pubblicato un’intervista  alla storica Anna Foa, docente emerito di Storia moderna all’Università «La Sapienza» di Roma, sulle proteste degli studenti italiani contro il genocidio del popolo palestinese da parte di Israele

di Lorenzo Poli – 2 aprile 2024

Il 27 marzo il quotidiano La Stampa ha pubblicato un‘intervista  alla storica Anna Foa, docente emerito di Storia moderna all’Università «La Sapienza» di Roma, sulle proteste degli studenti italiani contro il genocidio del popolo palestinese da parte di Israele. Devo premettere che la mia è una critica all’intervista e che mi dispiace criticare la professoressa Foa in quanto ho profondo rispetto per la sua persona e profonda stima per la sua umiltà e per il lavoro che lei ha condotto e continua a condurre in modo serio in nome della verità storica. Purtroppo però l’intervista e i suoi contenuti sono uno dei tanti esempi della retorica dominante volta a giustificare Israele non tanto parteggiando per esso, ma piuttosto per sfiorarlo con il cerchiobottismo: dando un colpo al cerchio e un colpo alla botte senza scomodare nessuno. Qui di seguito esporrò le mie considerazioni.

Netanyahu è l’espressione meno ipocrita della “cultura israeliana”

Oltre al fatto che considero ridicolo il paragone che la professoressa fa tra le proteste democratiche degli studenti contro il genocidio e le violenze politiche degli anni Settanta (il “terrorismo”), credo che il suo riferimento alla “cultura israeliana” come antidoto contro Netanyahu sia a dir poco scioccante e fuori dalla realtà. Netanyahu è Primo Ministro di Israele dal 29 dicembre 2022 e precedentemente dal 2009 al 2021 e tra il 1996 e il 1999 (ovvero una vita), ed è membro e leader del Likud, il partito d’estrema destra che fondò de facto lo Stato d’Israele: il partito contro il quale moltissimi ebrei si ribellarono in quanto “fascista”, vedasi Hannah Arendt e Albert Einstein. Netanyahu è l’espressione più lucida e meno ipocrita della cultura israeliana. Non è un caso che la maggior parte delle proteste contro Netanyahu siano contro le sue politiche in ambito sociale e civile e non in ambito economico,  nè tantomeno contro le sue politiche militari contro i palestinesi: da questo punto di vista i “sionisti liberali”, sono più morbidi a parole con i palestinesi, ma nei fatti hanno sempre proposto la stessa ricetta: come dimenticare i bombardamenti e le violenze contro i palestinesi della “laburista” e guerrafondaia Golda Meir?

Il collettivo Cambiare Rotta non nasce dal nulla

A quanto pare, Anna Foa non conosce veramente la storia del collettivo Cambiare Rotta, che vergognosamente definisce “un gruppo estremista venuto fuori all’improvviso i cui proclami fanno riferimento alla lotta dei terroristi…” a tal punto da evocare “Barbara Balzerani”, e che parla di Ucraina “con posizioni assolutamente filo Putin”. Non so dove abbia preso queste notizie, se le abbia vissute sulla sua pelle o se siano illazioni retoriche per scandalizzare il lettore, visto che Cambiare Rotta non è nulla di tutto questo. Detto ciò, Barbara Balzerani è stata quello che è stata, ma era una scrittrice molto interessante, quindi non vedo dove sia il reato eventualmente nel parlare di lei. Mi auguro che non passi il binomio “Se si cita la Balzerani, si è nostalgici delle BR”, altrimenti siamo alla frutta.

Genocidio o “reazione spropositata”?

Scioccante anche la domanda retorica indiretta che la Foa si pone: “(…) bisogna capire cosa sta succedendo nei nostri atenei.” – rispondendosi – “C’entra sicuramente la reazione spropositata di Israele a Gaza, un tunnel dal quale pare non si riesca ad uscire.” Il fatto che lei utilizzi l’espressione “reazione spropositata” denota che lei intende l’escalation militare israeliana come una risposta degli attacchi palestinesi, dimenticando che la repressione sionista sul popola palestinese è stata inaugurato prima della Nakba del 1948 ed è continuata fino ai giorni nostri. Lunedì 1 aprile, la guerra genocida israelo-statunitense-europea sulla Striscia di Gaza è entrata nel 178° giorno: l’esercito di occupazione israeliano ha continuato ad attaccare diverse aree di Gaza, uccidendo e ferendo decine di cittadini, nonostante la risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) per un cessate il fuoco immediato. Dopo due settimane di assedio, le forze nazi-sioniste si sono ritirate dall’ospedale al-Shifa, lasciandolo distrutto e pieno di cadaveri carbonizzati. Secondo fonti mediche, le forze di occupazione israeliane hanno commesso sei massacri contro famiglie nella Striscia di Gaza nelle ultime 24 ore, provocando l’uccisione di 63 palestinesi e il ferimento di altri 94. Le autorità sanitarie locali hanno confermato che il bilancio delle vittime palestinesi dell’attacco israeliano dal 7 ottobre è salito a 32.845 vittime segnalate, con ulteriori 75.392 persone ferite. La maggior parte delle vittime sono donne e bambini. Tale situazione, paradossale e unica nel suo genere, evidenzia il fallimento totale di tutti gli organismi internazionali come ONU, Assemblea e Consiglio di Sicurezza, UNRWA, Tribunali di Giustizia e Penale, ecc.

Credo dunque che sia incommentabile la leggerezza usata da Anna Foa nel definire la reazione di Israele come “spropositata”, in quanto si tratta di “genocidio” anche per l’ONU. Per quanto poi affermi che non vede l’ora che Netanyahu sconti le sue responsabilità, bisogna ricordare che Netanyahu è solo una parte del problema: il problema è proprio l’organizzazione sociale della società israeliana, il forte etnocentrismo israeliano, il concetto tanto biblico quanto occidentale di “Paese faro” che dev’essere un esempio per tutti gli altri Paesi; oltre al sionismo, un’ideologia politica nazionalista (spesso assimilata falsamente all’ebraismo, secondo cui chi è ebrei dev’essere anche sionista) il cui fine è l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico e il supporto a uno Stato ebraico in quella che è definita “Terra di Israele”. Il problema non è solo del governo politico attuale, ma è strutturale dell’intera società israeliana.

Il problema è essere comunisti?

Altra definizione della Foa che mi ha stupito è stata: “Non sono complottista e non credo in regie occulte dietro le quinte, ma vedo una forte matrice ideologica, molti studenti sono comunisti e l’Italia è il Paese dove il sostegno a Putin è più massiccio.” Una frase di una banalità assoluta e che da lei non mi sarei mai aspettato. Essere “comunista” sarebbe un problema? Essere “comunista” significa sostenere Putin? Ma da quando? Dice addirittura “molti studenti” sono “comunisti”, ma dove? Vuole dire forse una minoranza risicata e politicizzata dentro ad un marasma fatto di “liberalismo progressista” a cui la mia generazione sta abboccando, perchè se da un lato cerca di garantire le libertà civili, dall’altro continua a non mettere in discussione il problema reale e strutturale delle disuguaglianze economiche. Questa affermazione, da parte di un’esponente di quella che è stata considerata una delle famiglie intellettuali e politiche della sinistra italiana con radici socialiste, comuniste, anarchiche e proto-femministe, risulta ancora più grave poiché cade in una decomplessificazione del contesto attuale.

Anche l’affermazione secondo cui “il boicottaggio è un’assurdità” è raccapricciante in quanto sminuisce e tende a vanificare il lavoro incessante che il Movimento BDS ha fatto in tutti questi anni, portando anche a qualche risultato. La posizione secondo cui il boicottaggio aveva senso solo se si riferiva ai prodotti dei territori occupati è assurda, anche perchè le operazioni di rebranding da parte di Israele hanno avuto la meglio, facendo credere che il BDS non fosse indispensabile. Mi vien da pensare che la repulsione per i comunisti da parte della Foa, proviene dal monito di Lenin che affermava: “Chi non sta da una parte o dall’altra della barricata, è la barricata.” La descrizione perfetta della posizione cerchiobottista che ha espresso la Foa.

Nell’accademia israeliana non si critica l’occupazione coloniale

La narrazione secondo cui l’ambito accademico israeliano è lo spazio dove l’opposizione a Netanyahu si materializza è vera, ma nel frattempo non matura l’opposizione al sionismo e al colonialismo israeliano nei Territori Palestinesi Occupati e a tal riguardo rimando al libro La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione della sociologa israeliana antisionista Nurit Peled.

La confusione tra il boicottaggio alla cultura con il “boicottaggio accademico”

Inoltre quello che successe contro la cultura russa è ben diverso rispetto a quello che si chiede con il boicottaggio delle università israeliane. Quando scoppiò la seconda fase della Guerra in Ucraina nel febbraio 2022, non c’è mai stato un boicottaggio delle accademie russe, ma bensì dei vergognosi episodi di russofobia nei confronti della cultura russa: la cancellazione del corso universitario su Dostojevsky tenuto da Paolo Nori è stato il più grave. Non si colpirono gli atenei russi, ma bensì si colpì direttamente la cultura russa con episodi di “cancel culture”. Con Israele sta avvenendo il contrario: con il boicottaggio non si vuole colpire la cultura israeliana, ma bensì le strutture istituzionali dell’accademia che non hanno mai preso posizione contro l’occupazione coloniale israeliana dei territori palestinese, ma addirittura gli accademici che la criticano vengono sbattuti fuori esattamente come lo storico ed accademico israeliano Ilan Pappe.

«C’è sempre stata la tendenza a non valutare gli artisti e gli scrittori in base alla loro opera ma in base alla loro posizione politica. Molte invettive contro gli scrittori russi all’indomani dell’invasione dell’Ucraina sono state eccessive, bisogna anche dire però che allora ci fu bisogno di chiedere ad alcuni di loro di prendere posizione contro il Cremlino, mente gli scrittori israeliani lo fanno da sempre e con forza» – Questa dichiarazione della Foa è altrettanto vergognosa, poichè se è vero che è stato chiesto a molti scrittori russi di prendere posizione contro il Cremlino (con tanto di risalto mediatico), questo non è mai stato chiesto agli scrittori ed intellettuali israeliani, esattamente come non è vero che gli scrittori israeliani hanno sempre condannato “da sempre e con forza” o il sionismo o Netanyahu. In Italia solo alcuni attivisti hanno chiesto che Liliana Segre prendesse posizione visto che moltissimi ebrei sopravvissuti alla Shoah, come Norman G. Finkelstein, Hayo Meyer, Primo Levi e Felicia Langer, si sono sempre dichiarati irriducibili antisionisti, ma lei ha saputo solo dire che “non si occupava di politica”(sebbene si sia giustamente espressa contro il razzismo, contro la schedatura delle popolazioni Rom da parte di Salvini, e sui profughi ucraini) o addirittura che la parola genocidio adesso viene usata per parlare di qualunque cosa, di qualunque guerra, di qualunque battaglia, di qualunque presa di posizione. Mentre io l’ho conosciuta e per miracolo mi ha risparmiata”. Insomma, solo lei ha vissuto il genocidio e quindi non può viverlo nessun altro?

La “cultura israeliana” è sempre un antidoto all’occupazione coloniale?

Il riferimento un po’ snob della Foa – “Non credo che gli studenti protagonisti delle occupazioni di questi giorni leggano Grossman.”  – esattamente come l’entusiasmo verso gli scrittori israeliani come antidoto alla destra israeliana – “Ma gli scrittori sono l’avanguardia dell’opposizione a Netanyahu.” – non rispecchiano assolutamente la realtà dei fatti. Sono proprio gli autori che cita la Foa, ovvero David Grossmann e Amos Oz, ad essere tra i più controversi scrittori sulla questione palestinese. Sebbene Grossman sia ritenuto un sostenitore della sinistra israeliana, in particolare del Partito Laburista Israeliano dai tempi di Yitzhak Rabin, come gran parte degli israeliani ha sostenuto Israele durante la guerra israelo-libanese del 2006, condotta contro le milizie di Hezbollah. Poi dopo, il 10 agosto 2006, insieme agli autori Amos Oz ed Abraham Yehoshua, ha chiesto al governo di trovare un accordo per un “cessate il fuoco” come base per negoziati che portassero ad una soluzione concordata, definendo ulteriori azioni militari come “pericolose e controproducenti”. Qualche giorno dopo, suo figlio Uri, di 20 anni, militare di leva nella guerra in cui furono massacrati migliaia di palestinese e libanesi, è stato ucciso da un missile anticarro durante un’operazione delle forze di difesa israeliane nel sud del Libano. Questo per dire che Grossmann e la sua famiglia non sono mai stati pacifisti o disertori, anche perchè sanno benissimo quanto costi ad un cittadino israeliano fare il refusenik: l’espulsione e la marginalizzazione dalla società israeliana. Grossmann non è mai stato un grande critico della politica governativa nei confronti dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania come si continua a pensare, a tal punto che le sue dichiarazioni in questi mesi non hanno mai rimbombato per importanza contro il genocidio. Nel 2015, in un’intervista rilasciata a Fabio Scuto per La Repubblica, ha espresso addirittura sostegno per Benjamin Netanyahu riguardo alla politica tenuta nei confronti dell’Iran: una politica controproducente che ha alimentato solo le grandi tensione nella regione.

Anche Amos Oz, nel luglio 2006, ha sostenuto l’esercito israeliano durante la guerra con il Libano, scrivendo sul Los Angeles Times:

“Molte volte in passato il movimento israeliano per la pace ha criticato le operazioni militari di Israele. Non questa volta. Questa volta, la battaglia non è sull’espansione israeliana e la colonizzazione. Non c’è nessun territorio libanese occupato da Israele. Non ci sono rivendicazioni territoriali da nessuna delle due parti… Il movimento israeliano per la pace dovrebbe sostenere lo sforzo di Israele per l’auto-difesa, pura e semplice, fintanto che questa operazione ha come obiettivo soprattutto Hezbollah e risparmia, per quanto possibile, le vite dei civili libanesi”.

Ognuno poi giudichi da sé, ma credo che queste non siano opinioni di un pacifista. Possiamo affermare con certezza che spesso gli scrittori israeliani sono stati più un mezzo per mantenere l’opinione pubblica israeliana tra perbenismo e “indignazione”, piuttosto che un antidoto all’occupazione coloniale o alle politiche di Netanyahu.

I “confini del 1967” non esistono

Il tanto elogiato Amos Oz, quando voleva, criticava la sinistra sionista, alcune volte la elogiava, alcune volte criticava la sinistra antisionista, altre volte sosteneva guerre e altre volte i “cessate il fuoco” senza mai un filo logico, per poi appiattirsi sulle posizioni del partito Meretz, uno strano miscuglio tra sionismo e ambientalismo.

Il suo libro “Contro il fanatismo” è l’esempio più amplio dell’opportunismo e del doppio standard occidentale, dove si sbilancia molto rispetto al fanatismo islamico rispetto al fanatismo israeliano dell’apartheid razzista contro i palestinesi. Oz si è sempre dichiarato per la soluzione binazionale, senza mai criticare troppo il colonialismo israeliano se non nei metodi e senza mai opporsi alla costruzione del muro cisgiordano, ritenendo che il suo tracciato dovesse essere più o meno quello della “Linea Verde”, ovvero “il confine esistente prima del 1967”.

In realtà ciò dimostra anche la grave ignoranza di Amos Oz in termini giuridici. Come mi ha fatto notare la sociologa Patrizia Cecconi, quando si parla di “confine del 1967” solitamente si fa riferimento alla Risoluzione 181 dell’ONU come se avesse disposto la spartizione della Palestina. In realtà si tratta di un errore storico, giuridico e geografico: la Risoluzione 181 dell’Onu non dispone nessuna partizione e non ha nemmeno raccomandato quel confine anche perché, giuridicamente, Israele non ha confini. I cosiddetti “confini pre-5 giugno 1967” non sono altro che la linea dell’armistizio con cui è avvenuta l’acquisizione giuridicamente inaccettabile del 78% dei territori palestinesi (non del 56%, che “disponeva” la risoluzione ONU) su cui ad oggi non vige alcun trattato di pace. La retorica erronea e vergognosa dei “confini del 1967” è solo un favore gratuito ad Israele che gli permette di perseverare nell’occupazione coloniale di terre non sue. Israele i confini non li ha se non nei suoi progetti e nelle sue mappe coloniali risalenti ben prima del 29 novembre 1947, ovvero con il Piano Dalet: il piano bellico stabilito dal movimento terrorista sionista d’estrema destra Haganah nel marzo 1948, stilato da Israël Ber e Moshe Pasternak, sotto la supervisione del capo delle operazioni dell’Haganah Yigael Yadin durante la guerra arabo-israeliana del 1948, con il fine di inglobare tutta la Palestina storica con parti di Siria, Giordania, Libano oltre all’intera Terra di Canaan. Con l’attuale “soluzione finale” a Gaza sempre che Netanyahu abbia tratto ispirazione dal Piano D o che lo stia mettendo in atto sotto mentite spoglie.

“In Palestina non c’è un’apartheid razzista” e il problema sarebbe l’anti-americanismo

Infine, per tornare alla schizofrenica intervista, è interessante sapere che per la Foa quello che vivono i palestinesi oggi non è un “sistema d’apartheid razzista” e che il problema sia “l’anti-americanismo di tanta sinistra europea e italiana che non passa”. Ovviamente nessuna citazione alla propaganda bellica occidentale a reti unificati, né il cerchiobottismo pendente verso Israele che inebria la comunicazione mainstream.

A me tutto questo continua a scandalizzare profondamente, come continua a scandalizzarmi la cecità di gran parte degli intellettuali italiani che sono visti ancora come un punto di riferimento nonostante le loro spoglie analisi e le loro “riduzioni della complessità”, come direbbe Pasolini.

Ancora una volta, il problema è l’indulgenza e l’equidistanza di molti intellettuali nella questione palestinese.

 

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