Le proteste a Gaza che chiedono il ritiro di Hamas sono alimentate da un desiderio di certezza – che se Hamas si arrendesse semplicemente, il genocidio israeliano cesserebbe. La tragedia è che queste grida non saranno ascoltate o, peggio ancora, alimenteranno ulteriormente la macchina della guerra.
Fonte: English version
Di Abdaljawad Omar – 27 marzo 2025 Immagine di copertina: dimostranti gridano “Hamas fuori!” durante una manifestazione a Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale. (Screenshot tramite NBC News)
Il 18 marzo, gli aerei da guerra israeliani hanno ripreso il loro feroce bombardamento di Gaza, uccidendo più di 800 palestinesi nel giro di pochi giorni. Dopo nove giorni di nuovo assalto a Gaza, i manifestanti di Beit Lahia sono scesi in piazza. Tenendo cartelli con la scritta “No al genocidio”, alcuni di loro hanno anche dato la colpa alle fazioni armate palestinesi, in particolare Hamas. Nei media israeliani, questo filmato è stato immediatamente ripreso e riconfezionato: prova, hanno affermato, che la campagna di Israele stava funzionando, creando una spaccatura tra la popolazione e i gruppi di resistenza. Questa immagine di protesta palestinese, frammentata, disperata e ambiguamente posizionata, è diventata centrale nella strategia di guerra di Israele. Sostiene una doppia narrazione: che l’assalto militare è necessario e che gli stessi palestinesi sono arrivati a riconoscere la violenza come una loro creazione. La guerra a Gaza non è più solo una campagna di distruzione; è un’operazione psicologica, volta a produrre l’immagine della resa, dei palestinesi che rivendicano la responsabilità della loro morte.
Questa immagine ha anche un’altra funzione: legittima il consolidamento interno del potere di Israele. I titoli in Israele ora parlano di un governo che si riconfigura, perseguendo una strategia duplice: il riordino della sua architettura istituzionale e la continuazione della sua guerra perpetua. Questi obiettivi non sono distinti; ognuno sostiene l’altro. La campagna genocida a Gaza non è semplicemente un esercizio militare: presenta la possibilità di una pulizia etnica, assicura un ambiente regionale volatile e apre lo spazio per il confronto con l’Iran.
Internamente, il progetto di destra, caratterizzato da revisioni giudiziarie e dalla ridefinizione dei confini civici, si basa sul mantenimento dell’emergenza. La guerra, a sua volta, è razionalizzata dalla necessità di coesione nazionale, una narrazione di unità forgiata sotto assedio, e i segnali di capitolazione palestinese servono solo a questa più ampia narrazione di destra. Insieme, queste dinamiche formano un circuito chiuso: auto-rafforzante e reciprocamente dipendente.
Oggi, questi sono i titoli in Israele: il licenziamento del capo dello Shin Bet Ronen Bar (non ancora in vigore), il licenziamento del Procuratore generale dello Stato (non ancora in vigore) e l’approvazione di una legge di revisione giudiziaria destinata a entrare in vigore nella prossima Knesset. Tutto ciò accade mentre Israele è presumibilmente impegnato in una guerra di espansione in Siria e Libano, una guerra per la fine decisiva della questione palestinese, una guerra per enunciare sè stesso come unico egemone in Medio Oriente. Un colpo di stato in patria e una guerra senza fine.
E tuttavia, anche queste proteste, per quanto fragili e frammentate, non recuperano la figura dell’innocenza nell’immaginario israeliano. I dimostranti di Beit Lahia che chiedono la fine della guerra, che gridano contro il genocidio e Hamas, non sono accolti come voci esterne al dominio della colpa, di persone che anelano alla vita senza la minaccia della morte. La loro apparizione non interrompe la narrazione della colpevolezza collettiva palestinese che Israele ha attentamente curato durante questa guerra; al contrario, la ricodifica. Nel discorso israeliano, sono inquadrati non come vittime ma come potenziali collaboratori: palestinesi disposti a tradire i propri cari, a confessare l’errore della resistenza, a inginocchiarsi davanti al potere. Lo spettacolo della capitolazione diventa la prova finale della colpa: non la colpa di aver combattuto, ma la colpa di essersi mai rifiutati di sottomettersi. In questo modo, persino il dissenso diventa strumentalizzato. Non interrompe la guerra; ne riafferma la logica. Rende la violenza non solo giustificata ma necessaria, confermando che la resa è possibile, che la frammentazione è reale e che il dominio può ancora essere perfezionato.
Dissenso palestinese
Sin dallo scoppio della violenza tra fazioni armate a Gaza nel 2007, la società palestinese, sia a Gaza che in Cisgiordania, ha sopportato una profonda divisione interna, sostenuta dalla presenza di due fazioni politiche concorrenti, ciascuna delle quali offre una posizione distinta nei confronti della condizione coloniale.
La prima, guidata da Mahmoud Abbas e dall’Autorità Nazionale Palestinese, sostiene la cooperazione, la collaborazione e l’accomodamento, una strategia basata su negoziazione, costruzione dello Stato e cooperazione in materia di sicurezza. La seconda, incarnata da Hamas e altre fazioni della resistenza, insiste sul confronto, la resistenza e la sfida, considerando la struttura coloniale come una lotta esistenziale. Questo scisma non è semplicemente istituzionale; è penetrato nel tessuto stesso della vita politica palestinese, strutturando l’affetto, il discorso e le condizioni in cui vengono negoziati dissenso, sopravvivenza e speranza.
Questo scisma avrebbe finito per svolgere un ruolo dominante nel discorso politico palestinese sulla scia di Tufan al-Aqsa , polarizzando gradualmente sia il dibattito intellettuale che quello pubblico attorno a tre binari interrelati: vittoria e sconfitta, responsabilità e abbandono, resistenza e sopravvivenza. Questo discorso, tuttavia, non era del tutto interno. Era anche modellato, se non attivamente progettato, attraverso un’informazione sostenuta e una guerra psicologica, in particolare tramite i media arabi (finanziati dai paesi del Golfo) che cercavano di attribuire la responsabilità della campagna genocida di Israele alla resistenza stessa. In queste narrazioni, la “sconfitta” non era semplicemente un risultato, ma una condizione permanente, un orizzonte politico in cui i palestinesi avrebbero dovuto stabilirsi, disarmati, disillusi e disciplinati.
In questo ambito, le voci dell’opposizione organizzata a Gaza potrebbero essere ampiamente raggruppate in tre categorie sociali e politiche.
- In primo luogo, le strutture familiari tradizionali, i clan potenti, che vedevano la guerra come un’opportunità per affermare il controllo interno, ristabilire il loro dominio ed estrarre guadagni finanziari dagli aiuti in arrivo e dagli sforzi di ricostruzione.
- In secondo luogo, l’ampia base sociale dei lealisti di Fatah, in particolare quelli allineati con Mahmoud Abbas o Mohammad Dahlan, che cercavano di sfruttare la situazione per indebolire Hamas facendo circolare argomenti e narrazioni che incolpavano la resistenza per la devastazione. Il loro scopo era indebolire Hamas politicamente, posizionandosi al contempo per una potenziale governance in uno scenario postbellico.
- Il terzo era il desiderio disperato condiviso da molti palestinesi comuni che il genocidio finisse, che la violenza si fermasse, per qualsiasi cosa potesse frenare l’implacabile volontà di Israele di mostruosità.
Il desiderio che la guerra finisca, e che finisca immediatamente, è diventato il segno distintivo di quella che è stata, sotto molti aspetti, una campagna psicologica ampiamente efficace, in cui il dissenso organizzato da parte di Fatah collude volontariamente o involontariamente con le informazioni e la guerra psicologica israeliana. Al centro di questo sforzo c’è l’attribuzione della colpa, una sorta di discorso autoflagellante che pone il peso della responsabilità direttamente sulle spalle della resistenza. In questo quadro, il genocidio non diventa il crimine dell’autore, ma la conseguenza della sfida palestinese. La narrazione chiede ai palestinesi di interiorizzare la colpa non per la loro sottomissione, ma per aver osato resisterle.
Ma al di là della costruzione discorsiva, la sua efficacia deriva anche dalla posta in gioco coinvolta, dalla posizione insopportabile di essere tenuti sotto tiro e costretti a sopportare. Questa è stata la condizione di Gaza: un luogo in cui la sopravvivenza è sempre negoziata, dove il costo della parola è la morte e dove le espressioni di rinuncia a sè stessi non sono nuove, né sempre volontarie. Sono prodotte sotto assedio, sotto bombardamento e sotto la lunga ombra di un colonizzatore che esige la sottomissione come prezzo del respiro.
Inoltre, il bombardamento incessante di Gaza e la distruzione totale dei suoi edifici hanno prodotto una realtà radicalmente alterata. Questa nuova realtà è duplice. In primo luogo, comporta il grave indebolimento delle strutture di governance e della capacità delle autorità palestinesi di fornire servizi di base o di gestire la società, in particolare nei settori della prevenzione della criminalità e del contenimento delle ritorsioni personali.
In secondo luogo, ha creato un senso di vuoto politico e amministrativo, ulteriormente esacerbato dagli assassinii mirati di funzionari governativi da parte di Israele dopo il suo rinnegamento dell’accordo di cessate il fuoco. L’erosione della presenza istituzionale, sia fisica che simbolica, ha lasciato dietro di sé non solo una crisi nella fornitura di servizi, ma una rottura nell’idea stessa di ordine, un ambiente in cui l’autorità è sempre più fragile e in cui forme alternative di controllo e potere informale stanno iniziando ad affermarsi in assenza di infrastrutture statali.
Il secondo è l’improvvisazione di Gaza come terreno per acquistare lealtà e fedeltà politica da parte di forze ostili anche ad Hamas o alla resistenza più in generale. Ciò è dovuto in parte allo svuotamento dei risparmi e dei beni delle persone e alla distruzione dei mezzi di sostentamento. Ma forse più centrale è il fatto che Gaza non è più la Gaza che era prima della guerra, a causa dei cambiamenti demografici e spaziali che si sono verificati dallo scoppio della violenza.
Questi cambiamenti nella capacità finanziaria della popolazione, gli spostamenti stessi e la composizione spaziale significano che la politica locale a Gaza non può più essere letta attraverso le stesse lenti di prima. La guerra non ha solo spostato fisicamente le persone, ma ha anche disgregato i tessuti sociali e le solidarietà basate sui quartieri che un tempo sostenevano la vita politica. Aree che un tempo erano identificabili dalle loro inclinazioni politiche, che fossero verso Hamas, Fatah o altre formazioni, ora sono sparse, le loro popolazioni frammentate e trasferite, spesso più volte. Le famiglie di Beit Hanoun sono ora a Rafah, quelle di Shuja’iyya sono in scuole trasformate in rifugi a Deir al-Balah. In tali condizioni, l’idea stessa di una “base locale” fissa perde coerenza.
Le affiliazioni politiche sono messe a dura prova dalle urgenze della sopravvivenza e le logiche della rappresentanza sono fratturate dal crollo dello spazio stesso. Non si può parlare di politica locale al passato remoto, ma solo in un tempo di sospensione, di comunità tenute in transito, costrette a ricostituire posizioni politiche sotto assedio, dolore ed esaurimento. Ciò che emerge non è solo una crisi di governance o di resistenza, ma una crisi della politica stessa. Non è di buon auspicio per nessun analista dire, ad esempio, che Beit Lahia, dove si sono verificate alcune di queste piccole manifestazioni, era una roccaforte di Fatah o Hamas.
Detto questo, ciò che rimane poco meno che miracoloso è che dopo diciassette mesi di guerra, la società palestinese continua a mostrare profonde forme di solidarietà interna. Nonostante l’inimmaginabile portata della distruzione, la frammentazione dello spazio e l’erosione della governance istituzionale, le persone trovano ancora modi per condividere, far circolare le risorse, stare insieme in comune. L’idea di comunità non è scomparsa; persiste, ostinatamente, anche se le pressioni della guerra spingono sempre più gli individui verso la ricerca della salvezza personale o familiare.
In uno scenario di frammentazione, espropriazione e violenza implacabile, la continua esistenza della vita comunitaria non è semplicemente un residuo del passato, è una forma attiva di resistenza, un rifiuto di consentire alla guerra di atomizzare completamente il tessuto sociale.
Il desiderio di certezze
La guerra è spesso descritta come un turbine, un crollo di passato, presente e futuro in un singolo, indistinguibile momento. Sospende la cronologia, frammenta la coerenza e inaugura il primato del disorientamento, del disordine e dell’incertezza. In guerra, il tempo cessa di svolgersi; implode. Il significato diventa irregolare e le strutture che un tempo ancoravano la vita (rituale, routine, memoria, anticipazione) vengono consumate nell’immediatezza della sopravvivenza. Per molti palestinesi la certezza, anche se la certezza è quella della sconfitta o della resa, è desiderata.
Queste dimostrazioni sono un grido di sicurezza, di ordine, di coerenza, di qualsiasi cosa possa stabilizzare un mondo che precipita nell’ambiguità, in particolare l’insopportabile incertezza se si vivrà o morirà, se amici e persone care sopravvivranno alla notte. Non sono solo gesti politici, ma suppliche esistenziali: tentativi di riaffermare la leggibilità di fronte al caos, di afferrare frammenti di significato quando il significato stesso è sotto assedio. E tuttavia, sono anche performance di agency, atti di affermazione di una qualche forma di controllo, anche quando quel controllo inavvertitamente rafforza proprio il meccanismo di massacro che cercano di fermare.
Questa è anche la tragedia della vita sotto il mostruoso. Una vita in cui l’Altro è onnipresente, infestando ogni respiro come un angelo della morte, eppure l’unico volto a cui puoi piangere, obiettare o supplicare è il volto che rispecchia il tuo, segnato dallo stesso linguaggio, dagli stessi lineamenti.
La macchina dello sterminio ha sempre prosperato su tali accordi: crea le condizioni per la necrosi, per il fratricidio, per l’interiorizzazione della colpa. Lo fa essendo ovunque, ma rimanendo anche là fuori, sia presente che assente. Rende la vittima complice non nell’azione ma nella disperazione, piegando la resistenza all’autoflagellazione e il dolore all’autorimprovero.
Eppure le grida, persino quelle di resa, rimarranno tragicamente inascoltate o, peggio, alimenteranno ulteriormente la macchina da guerra.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org