Abbandonato da Israele, il campo profughi di Gerusalemme viene lasciato a combattere da solo l’epidemia di COVID-19

Senza test, forniture mediche o zone di isolamento, i residenti del campo profughi di Shuafat si stanno mobilitando per garantire la sicurezza in caso di epidemia. Copertina: Una vista del muro di separazione e del campo profughi di Shuafat, Gerusalemme, 22 marzo 2020. (Foto di Olivier Fitoussi / Flash90)

Fonte – English version 

Di Yuval Abraham – 12 Aprile 2020

Sono i giorni della pandemia di coronavirus e la stragrande maggioranza degli abitanti di questa terra sono preoccupati per il loro stato economico, sanitario e psicologico. Queste preoccupazioni sono altrettanto rilevanti per i residenti del campo profughi di Shuafat, situato all’interno dei confini municipali di Gerusalemme, pur trovandosi dall’altra parte del muro di separazione.

Adnan, un giovane impiegato nel settore della alta tecnologia, afferma che il suo corpo si sta lentamente logorando dopo settimane senza abbracciare nessuno. Aysar, chef di un ristorante locale, non riesce a dormire da quando la sua attività è chiusa. Ilham, figlia di una famiglia di rifugiati di Jaffa, è preoccupata per la sua anziana madre che trascorre le sue giornate a casa nel suo appartamento.

Ma gli abitanti del campo soffrono di un ulteriore, particolarmente crudele e unico problema: Israele li ha completamente abbandonati dietro il muro.

Il muro di separazione ci ha isolati da Gerusalemme e ha separato Gerusalemme da noi”, afferma Kamel Ja’abri, che aiuta a gestire un’organizzazione giovanile nel campo ed è un volontario di Kulna Jerusalem, una ONG locale composta da ebrei israeliani e palestinesi residenti in città. “In questo momento, all’ombra del coronavirus, questa separazione è pericolosa.”

Il problema centrale, afferma Ja’abri, è che le autorità non hanno né allestito un laboratorio di prova nel campo né istituito una zona di isolamento per le persone che potrebbero essere infettate. Questo tipo di infrastruttura è fondamentale a causa dell’immensa densità di Shuafat, che rende difficile un effettivo distanziamento sociale, in particolare se si considera la possibilità che Israele possa mettere sotto quarantena il campo, chiudendo il checkpoint all’ingresso di Shuafat, nel caso di un’epidemia.

“Se ci fosse un focolaio a Shuafat, le autorità non ci tratteranno come hanno fatto con la città Haredi di Bnei Brak, chiuderanno immediatamente il checkpoint. Sarà un disastro. Il governo aveva già preso in considerazione la possibilità di farlo due settimane fa, nonostante qui non ci fosse nemmeno un’infezione. Cosa succederà quando avremo dei casi? A loro non importa. Nessuno verrà portato nei centri di isolamento”, conclude Ja’abri.

Il muro di separazione è stato costruito circa 15 anni fa e da allora i residenti del campo non hanno ricevuto servizi di base ed essenziali dal comune, che è responsabile dell’area. Magen David Adom (Croce Rossa di David), il servizio medico d’urgenza di Israele, non entra nel campo profughi di Shuafat e, per condurre test per il coronavirus, i residenti devono attraversare il checkpoint e recarsi in un ospedale vicino.

Il sindaco di Gerusalemme Moshe Leon si è opposto al tentativo del governo israeliano di chiudere il checkpoint di Shuafat, ma molti residenti del campo credono che possa ancora accadere.

“Il muro è stato costruito come parte di una politica demografica il cui obiettivo è sradicarci dalla città”, dice Ja’abri. “È evidente, per me e per tutti coloro che vivono qui, che Israele non ci vuole. Ecco perché è fondamentale richiedere l’allestimento di un centro di analisi e una zona di isolamento all’interno del campo. In questo modo, se restiamo isolati, avremo le infrastrutture per affrontare la crisi”.

Orfani che affrontano la pandemia

Il portavoce del ministero della Sanità israeliano afferma che non esiste un piano per istituire centri di isolamento o implementare test sull’altro lato del muro di separazione. “Il nostro punto di partenza è che la creazione di laboratori di analisi a Gerusalemme est è sufficiente per servire anche queste persone. Devono passare attraverso il checkpoint per farsi testare. Se, Dio non voglia, il checkpoint venisse chiuso, ci porremo questa domanda e daremo una risposta”.

Il portavoce ha anche affermato di non avere dati sul numero di pazienti COVID-19 nel campo e che “il ministero non fa l’identificazione per nazionalità”. In altre parole, il ministero non pubblica dati sulle infezioni per quartiere, ma solo per città.

“Questa è una situazione pericolosa”, avverte Abir Joubran Dakwar, un avvocato dell’Associazione per i diritti civili in Israele. “Se il governo decide di chiudere il checkpoint, non saremo in grado di sapere se ciò sia giustificato per motivi di salute o se sia stato fatto per motivi politici. Secondo Farad Zaghir, un medico in una clinica di Shuafat, al momento non ci sono casi noti di COVID-19 nel campo.

“È una bomba a orologeria”, afferma Zaghir, “è sufficiente che una persona si ammali perché il virus si diffonda rapidamente. Nella mia clinica mancano alcol, guanti, test per i lavoratori e mascherine protettive. Il personale non è ancora stato addestrato per affrontare il coronavirus. I dottori nel campo non hanno gli strumenti per affrontare la pandemia. È un’emergenza. Ho contattato il ministero della Sanità una settimana fa, ma non ci è ancora stato dato nulla”.

Mentre Israele non fornisce la maggior parte dei servizi necessari ai quartieri palestinesi oltre il muro, continua a impedire all’Autorità palestinese di farlo. La scorsa settimana, la polizia di Gerusalemme ha arrestato Fadi al-Hadami, ministro degli affari di Gerusalemme dell’AP, così come il governatore dell’AP di Gerusalemme Adnan Ghaith sospettato di agire per conto del coordinamento dell’AP contro il coronavirus a Gerusalemme Est, violando così la sovranità israeliana. “Da un lato non ci danno diritti, dall’altro imprigionano chiunque cerchi di aiutare a colmare il vuoto lasciato da Israele”, dice Ja’abri. “Ora, mentre la pandemia si espande all’esterno, questa politica potrebbe benissimo finire con una catastrofe”.

Muatasim, residente a Kufr Aqab, un altro quartiere di Gerusalemme oltre il muro, afferma di aver visto i rappresentanti dell’AP girare per le strade chiedendo ai residenti di rimanere a casa. “Hanno anche disinfettato il quartiere e svolto gran parte degli interventi che Israele ha trascurato”, aggiunge. “Il loro coinvolgimento è aumentato con il crescere della crisi. In passato quasi non li vedevo qui”.

L’AP ha recentemente lanciato una campagna di donazione per cibo e attrezzature da destinare alle famiglie bisognose di Gerusalemme. L’organizzazione includeva un sito Web in cui i residenti della città potevano richiedere assistenza in forma anonima o fare donazioni volontarie. Secondo gli abitanti del campo profughi di Shuafat, molte famiglie del campo e di Kufr Aqab sono venute sul posto per chiedere aiuto, ma Israele gli ha ripetutamente impedito di passare. “Ecco perché hanno arrestato il governatore di Gerusalemme”, afferma Ja’abri.

Intrappolati tra abbandono governativo e blocco degli aiuti da parte dell’Autorità Palestinese, i residenti dei quartieri sono rimasti orfani di fronte a una pericolosa pandemia. La città ha fatto ben poco oltre a sanzionare persone che violano le direttive di blocco del governo israeliano e, su richiesta dell’ONG israeliana Ir Amim, ha disinfettato alcune strade di Kufr Aqab.

Alla luce dell’abbandono, nel campo sono emerse numerose organizzazioni indipendenti. “Distribuisco volantini con le istruzioni del Ministero della Sanità alle persone per strada”, ha detto Ja’abri, La nostra attività è dedicata all’insegnamento sul coronavirus ai bambini, perché sono i più attaccati ai nonni.

“Profondamente pericolosi e ostili”

Nelle ultime settimane, le organizzazioni locali e i leader del campo hanno allestito un centro di emergenza autofinanziato con attrezzatura di protezione, intraprendendo una serie di azioni per disinfettare gli spazi pubblici e fornire informazioni su COVID-19 ai residenti. “Siamo tutti uniti nella lotta contro il coronavirus”, afferma Aysar, uno dei residenti del campo.

Circa un terzo dei residenti palestinesi di Gerusalemme vive in condizioni disastrose, di misera e povertà, dall’altra parte del muro. Munir Zughir, capo del comitato residenziale di Kufr Aqab, si chiede come sia possibile che l’opinione pubblica israeliana sia così indifferente a ciò che sta accadendo a Gerusalemme est. Secondo lui, sia la collettività che i rappresentanti del governo israeliano percepiscono la popolazione residente del quartiere come pericolosa e ostile, e che è una sufficiente “giustificazione” per isolarli.

“Ti faccio un esempio”, dice Zughir. “Da un mese ormai le persone non hanno avuto entrate e la situazione è stata difficile. Lo stesso vale per molti luoghi, ma questa è una delle popolazioni più povere della città anche senza la crisi del coronavirus”.

“Non è che non c’è niente da mangiare, ci sono molte donazioni di cibo”, continua. “Il problema principale è il gas e l’elettricità. Alcune persone non hanno soldi per pagare le bollette e rimangono al buio. Ho chiesto al Ministero del lavoro, degli affari sociali e dei servizi sociali di inviare buoni a 63 famiglie bisognose. Mi hanno contattato cinque giorni fa e hanno concordato che uno dei loro impiegati sarebbe venuto nel quartiere, avrebbe fatto un giro e avrebbe censito le famiglie. Ma l’impiegato non è venuto, giustificandosi dicendo che era pericoloso, che ci sono sparatorie e così via. Questo non è vero.”

“Quando gli agenti della polizia di frontiera entrano armati nel campo, aumentano ovviamente le tensioni e gli adolescenti iniziano a lanciare pietre. Ma altri funzionari governativi non sono un problema”, afferma Ja’abri.

“Ai cittadini israeliani viene raccontata la storia di una popolazione ostile e non cooperativa”, aggiunge. “E sì, c’è un’antipatia per gli israeliani che deriva da anni di oppressione e conflitto, questo ha ragioni politiche. Ma finché Israele controlla l’area, allora ne è responsabile e deve trovare un modo di intervenire, specialmente durante una crisi.”

“Secondo me, il modo di affrontare la crisi è attraverso una più stretta cooperazione tra la leadership locale, su cui fanno affidamento i residenti, e le autorità israeliane. Stiamo tendendo la mano. Questa è una questione di vita o di morte, ma siamo ripetutamente ignorati, la negligenza continua e tutto ciò che sentiamo sono slogan sulla nostra mancanza di collaborazione”.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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