77 anni fa, la storia della mia famiglia è stata cambiata per sempre dal massacro di Deir Yassin. Per questo motivo, vedo tutto attraverso il filtro della Nakba, e il genocidio di Gaza attraverso la lente del sumud.
Fonte: English version
Di Dina Elmuti 9 aprile 2025
Immagine di copertina: Piante di cactus trafitte dai proiettili all’esterno di Deir Yassin (foto per gentile concessione di Dina Elmuti)
Mia nonna navigava nella vita con la sumud – la fermezza – come bussola. Le traslucide vene blu delle sue mani erano linee su una mappa che mi conduceva a casa. Le sue cicatrici erano l’inchiostro indelebile che raccontava storie di dolore così profondo che le pietre piangevano.
Il suo villaggio era rinomato per le pietre estratte dalle cave. Oggi, le sue fondamenta sono cementate con il sangue, le ossa e la carne di generazioni angosciate. Intorno al villaggio si estende una foresta di pini non autoctoni, piantati in un terreno irrigato da strati di morti dimenticate. Rimane infestato dal vento che trasporta gli echi delle urla lancinanti provenienti dai petti e dalle gole recise dei suoi legittimi abitanti.
Il nome del villaggio è stato calpestato e cambiato in Kfar Shaul , che in ebraico significa villaggio preso in prestito. Per i palestinesi di tutto il mondo – quelli che sopravvivono su quella terra e quelli di noi sfollati e in difficoltà – sarà sempre Deir Yassin.
Nessun luogo ha mai reso chiaro il mio scopo come questo. È grazie a Deir Yassin che oggi vedo tutto attraverso il filtro della Nakba. È per questo che vedo Gaza attraverso la lente del sumud .
Ballando sulle nostre tombe
In una serenità mal servita, il villaggio ospita pazienti psichiatrici che trascorrono le loro vite sicure e protette in cortili curatissimi, senza la minima idea o interesse su come siano arrivati a tutto questo. Questo pittoresco villaggio funge anche da centro culturale per i festival musicali in stile Woodstock , dove festaioli incalliti vengono a ballare sulle tombe dei suoi originari occupanti.
Un tormento unico mi scorre nelle vene al pensiero delle anime sepolte che sopportano pazientemente questo incessante disprezzo.
I resti delle lapidi si ergono come avanguardie contro le narrazioni amnesiche, in contrasto con i miti utopici e mitici del sionismo del passato e del presente. Sono la prova che la Nakba rimane una presenza inquietante ovunque i sionisti impongano la loro presenza vuota e artificiale.
Quando torno a Deir Yassin, mi ritrovo dietro una recinzione dispettosa che mi impedisce di toccare la casa di pietra di mia nonna. Il cuore mi si blocca in gola, intrappolato e turbato dalla sensazione di essere io l’intrusa nel villaggio della mia famiglia.
Incantata, penso a come tutti coloro che hanno vissuto lì prima di me abbiano dovuto scegliere di sopravvivere. Per i palestinesi, vivere è sempre esistito nel presente progressivo. Ogni respiro che fanno è una scelta per sopravvivere ancora un po’.

In lontananza, in questo paesaggio tormentato e frammentato dagli insediamenti, si erge l’imponente memoriale di Yad Vashem, che amplifica l’ipocrisia sionista con la sua visibilità panoramica. Ogni volta, sento la rabbia crescere. Temo che le pietre che tengono insieme le case non riescano a contenermi, che alzerò di nuovo la testa per ammirare il panorama e che la furia travolgerà l’intero villaggio.
Sento l’angoscia del trauma generazionale artigliare la mia coscienza. Perfora la nebbia del dolore, dei campi di battaglia in fiamme e del linguaggio ambiguo orwelliano, sostituendola con concentrazione e chiarezza.
Sullo sfondo del genocidio, ricordo Gaza.
A volte non trovo le parole per gridare l’oceano che mi si è impantanato in gola. Altre volte rimango completamente senza parole, mentre vedo i sionisti ostentare spudoratamente il loro zelo sterminatorio, trasmettendo impunementein diretta streaming un genocidio.
Chiudo gli occhi e vedo cumuli di macerie e carne – strati di memoria ovunque. Sento urla strazianti attraverso il cemento e vedo bambini con sguardi determinati in piedi tra cumuli di pietre. Il marciapiede grigio sembra sul punto di scoppiare in lacrime sconsolate da un momento all’altro. Grigio – assoluto e onnipresente; questo colore è ovunque a Gaza.
Un’enclave decimata per far posto a complessi residenziali di lusso non è più un fatto evidente o teorico. Le promesse di sicurezza sono musica per le orecchie sioniste, ma quel canto sinistro sarà soffocato dalle grida agghiaccianti dei bambini palestinesi che echeggiano tra le macerie.
Da Deir Yassin a Gaza, le atrocità continuano a bruciare la nostra memoria collettiva. Deir Yassin non è Gaza, ma è indubbiamente il nostro patrimonio comune.

Lo abbiamo già visto prima
Un singolo giorno nella storia ha aperto la strada all’annientamento collettivo del popolo palestinese. La Soluzione Finale di Israele non è iniziata il 7 ottobre 2023. È iniziata la mattina del 9 aprile 1948, quando i gruppi sionisti militanti, l’Irgun e la Banda Stern, invasero il tranquillo villaggio di Deir Yassin. I gruppi terroristici sventrarono, mutilarono e violentarono gli abitanti del villaggio, massacrando oltre 250 persone.
In pochi secondi, i delinquenti sionisti hanno spogliarono uomini, donne e bambini innocenti di tutto ciò che li definiva. Al calar della notte, hanno abbandonarono 55 bambini orfani sopravvissuti in un vicolo vicino alla Chiesa del Santo Sepolcro, nella Città Vecchia di Gerusalemme.
Una di quei bambini era mia nonna Fatima.

Rilevare la brutalità commessa a Deir Yassin equivarrebbe a criticare la rotondità della Terra. Perché continuare a commemorare un massacro così a lungo dopo l’evento, soprattutto quando la sua enormità impallidisce in confronto al genocidio che Israele sta commettendo mentre scrivo?
Oltre a piangere l’intera tragedia, commemoriamo Deir Yassin per ricordare le montagne di numeri astratti, disumanizzati e senza volto. Ricordare ci permette di immaginare bambini, soli e terrorizzati, ammucchiati sui camion e condotti in processione per le città, in fuga dalle uniche case che avessero mai conosciuto. Bambini affamati, assetati, soli, confusi, spaventati, sotto shock, in camicia da notte e biancheria intima sporca, con l’odore di sangue e urina, tremori che terrorizzavano i loro piccoli corpi.
È tutto familiare in modo inquietante . Vedi i tuoi occhi riflessi nei loro; i volti dei tuoi familiari sostituiscono quelli indistinguibili. Vediamo bambini come questi a Gaza sui nostri telefoni e schermi. Le immagini di genitori che trasportano in sacchi i resti a brandelli dei corpi dei loro figli sono scene che non potrai mai digerire finché vivi. Non ti abbandoneranno mai .
E tutti si sono trasformati in un unico, unanime grido di dolore. I palestinesi hanno sopportato per un secolo il tamburellare della disumanizzazione. Questa disumanizzazione fa molto di più che consentire il genocidio. Genera un’energia annientante attraverso la quale atrocità e distruzione si moltiplicano esponenzialmente.
Quando ricordiamo Deir Yassin e Gaza, restituiamo dignità a quella massa anonima di ossa e cenere polverizzate, affinché tornino a essere le Fatima, Hind, Reem, Tareq, Refaat, Shaban, Soraya, Sakeena e Ahmad che conoscevamo. Ricordiamo gli esseri umani preziosi, le cui vite sacre rimangono parte della nostra storia e del nostro midollo.
Ricordiamo anche Deir Yassin per non dimenticare mai che la violenza non può esistere nel vuoto; è invariabilmente intrecciata con la menzogna. Il contesto è cruciale. Non ci fu alcun cessate il fuoco il 9 aprile 1948, né il 6 ottobre 2023, né in nessun giorno prima o dopo.
Deir Yassin ha inaugurato il ciclo continuo del sionismo, in cui un assalto israeliano riprende da dove si era interrotto l’ultimo, completando l’insidiosa campagna di sfollamenti forzati, espropriazioni, controllo demografico e sterminio dei palestinesi. Il massacro ha creato il precedente per quello che oggi sarebbe diventato un genocidio accelerato, trasmesso in diretta streaming a Gaza, perché ha fornito il quadro di quella che rimane la dottrina ufficiale di Israele oggi: il massacro di milioni di palestinesi per essersi ribellati e aver osato resistere al loro annientamento.
I sionisti hanno commesso atti simili a Deir Yassin migliaia di volte, in termini di portata e barbarie. Hanno bruciato, violentato, decapitato e sterminato palestinesi per quasi un secolo. Ogni azione di Israele è basata sulla protezione dei propri interessi; la vita di tutti gli altri sia dannata. Purtroppo, continuerà a fare ciò che vuole, finché continuerà a essere sostenuto incondizionatamente dal rapace finanziatore della catastrofica miseria e sofferenza delle nostre famiglie: gli Stati Uniti.
Implosione inevitabile
Oggi, i palestinesi hanno imparato le orribili lezioni di Deir Yassin. Le immagini e la propaganda allarmistica che un tempo provocavano isteria e incutevano timore nei cuori di milioni di persone si sono rivelate vane. I palestinesi di Gaza rimangono risoluti, incrollabili e determinati a tornare alle case che hanno lasciato o a morire dignitosamente nelle loro case sotto la pioggia di un bombardamento spietato.
Come pietre umane, adamantina e incrollabile, restano.
Settantasette anni fa, il nome di Deir Yassin incuteva timore nei cuori dei palestinesi di tutto il mondo. Oggi, Deir Yassin continua a catturare la nostra attenzione e a invitare a una risposta. Ma non nel modo che i sionisti speravano.
Gaza accende un senso di orgoglio, non con una mentalità nichilista del “niente da perdere”, ma piuttosto un senso di dignità che lascia dietro di sé un’eredità incrollabile di resistenza. Gaza non è Deir Yassin, e non lo sarà mai .
Sebbene Gaza evochi immagini di inferno in terra, infonde un senso di dignità e onore senza precedenti. Oggi, il mondo è testimone delle atrocità più incomprensibili e del trauma insondabile nel crematorio a cielo aperto di Gaza. Ma il terrore che un tempo ci attanagliava da Deir Yassin non c’è più.
Un indistruttibile senso di liberazione lo ha sostituito, perché Gaza ci ha liberati tutti.
E il fatto è che i sionisti falliranno inevitabilmente, come tutti gli oppressori prima di loro. Il loro tempo è segnato, e la loro satanica brama di avidità e crudeltà umana si rivelerà un fallimento catastrofico. Non sono mai riusciti a spezzare la resistenza del popolo palestinese con massacri o isolamento. Si abbandonano a orge di terrore aereo e non hanno ancora raggiunto nessuno dei loro obiettivi.
L’oceano di sangue che versano con il loro odio fanatico e il loro zelo sterminatore macchierà i loro atti d’accusa e porterà virtù agli oppressi. Il loro mito nazionalista imploderà inevitabilmente con una ferocia sorprendente, come le loro bombe incendiarie che squarciano i corpi e dissotterrano il terreno. Gli infiniti corpi che riversano in questa fossa del massacro alla fine li seppelliranno. E nonostante tutto, continueranno a unire il popolo palestinese e il mondo , non a separarli.
Un momento cauterizzante
Il mio corpo porta con sé il mondo di mia nonna. La sua storia ha acceso il mio scopo, ha minato le mie comodità ben prima dell’11 settembre e ha infranto le illusioni di un impero. Ascoltare la sua testimonianza ha evocato visceralmente un terrore di decenni fa, come se fosse accaduto solo pochi giorni prima. Mi ha dato stabilità come un secondo scheletro, e le mie ossa portano questo trauma da generazioni.
È il peso più leggero che abbia mai trasportato.
E continuerò a portarla con me, anche se si tratta di un’azione infinitesimale, trascurabile e, nella migliore delle ipotesi, invisibile. Il graffio di un’unghia sul muro di una prigione in confronto ai sacrifici di coloro che combattono senza sosta sui campi di battaglia infuocati di Gaza , Jenin , Tulkarem e oltre.
Nel cuore di milioni di palestinesi esiste un santuario dove custodiscono il dolore in un isolamento protetto. Con frasi misurate, condividono gli orrori a cui hanno assistito, la violenza commessa, una realtà fin troppo difficile da articolare. Le loro narrazioni vengono messe a tacere, cancellate e relegate ai margini dei quadri di significato socialmente sanciti.
Il mondo ha abituato i sionisti a vedere il loro riflesso in ogni rappresentazione dell’umanità, passata e presente. Se ne accorgono solo quando il mondo li spoglia di quella facciata. Dobbiamo sistematicamente scavare il paesaggio del silenzio arrogante affinché il mondo ascolti ripetutamente le nostre storie. Così facendo, continueremo a sconvolgere i meccanismi che operano al cuore della violenza genocida, come condizione abilitante, anzi necessaria.
Restiamo custodi della memoria, aggrappandoci con tenacia alle nostre storie. La nostra resistenza continua a essere quella di sopravvivere ai regimi che semplicemente non vogliono che sopravviviamo per raccontarle.
Non possiamo permetterci di rimanere in silenzio. Siamo tutti inevitabilmente parte di questo momento di cauterizzazione. Abbiamo tutti interesse nelle storie raccontate. Ogni voce che si leva contro il sionismo ne intacca la potenza. Ogni parola ha conseguenze; ogni silenzio, anche.
Abbiamo tutti una scelta da fare. Possiamo scegliere di essere tra le fiamme, insieme a chi combatte strenuamente sui campi di battaglia infuocati della terra bruciata. Oppure possiamo scegliere di essere nel luogo che accende gli incendi.
La scelta è nostra.
Dina Elmuti è un’assistente sociale e clinica specializzata in traumi, con esperienza in traumi dello sviluppo, avversità nella prima infanzia e traumi generazionali. Ha collaborato con ONG che si occupano di bambini in Palestina e di comunità di rifugiati e immigrati a Chicago.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org